Questa è la storia di un padre e di un figlio che videro insieme una sola partita allo stadio. Di un papà atalantino «sfegatato» (così si dice di quelli che per la squadra di calcio riescono a star male, e non per modo di dire) e di un bambino di appena dodici anni protagonisti, loro malgrado, di uno dei pomeriggi di più straordinaria violenza calcistica. Era il 15 gennaio 1978, al Comunale di Bergamo l'Atalanta ospitava il Torino. Una sfida accesa in campo, infuocata sugli spalti. A confronto due tifoserie divise da una rivalità pazzesca, ai limiti dell'odio.
Il papà forse lo sapeva, o forse non immaginava il triste spettacolo cui avrebbero assistito e tantomeno i rischi che avrebbero corso lui e il figlioletto. Era una bella giornata di sole d'inverno, gli era parsa l'occasione giusta per portare il piccolo allo stadio. La mamma aveva tentato invano di sconsigliare il capofamiglia, sapeva che la passione per i colori nerazzurri in passato gli aveva giocato brutti scherzi. Una volta la pressione alta era sfociata in un collasso in piena regola, con tanto di ambulanza accorsa al Comunale per mettere in salvo il tapino troppo su di giri. Non c'era stato verso. Quella doveva essere l'iniziazione alle pratiche atalantine.
Qualche avvisaglia su una certa tensione padre e figlio la percepirono già nell'approssimarsi allo stadio. Il bambino ricorda uno schieramento di poliziotti e carabinieri mai visto prima. «Papà, sei sicuro che non abbiamo sbagliato strada?» la domanda ingenua a cui fu data una risposta finto rassicurante. «È solo scena, stai tranquillo». Arrivati faticosamente sugli spalti, in Curva Sud, capirono che di rappresentazione teatrale non c'era proprio nulla. La sensazione divenne certezza al 30' del primo tempo quando in occasione di un calcio di rigore fischiato a favore dell'Atalanta (sciaguratamente sbagliato da Tonino Rocca) dal gruppo di tifosi granata presente in quel settore partì una serie di razzi, sì razzi, diretti contro gli spettatori (due anni dopo l'escalation criminale degli ultrà portò alla morte a Roma del tifoso Vincenzo Paparelli).
Apriti cielo. Scoppiò il finimondo. La situazione divenne esplosiva, del tutto fuori controllo, al termine del primo tempo quando furono aperti, non si sa bene perché (o forse sì), i cancelli dello stadio e gli atalantini in massa si spostarono dalla Nord alla Sud. Il papà e il bambino si ritrovarono nel mezzo di una colossale rissa a cielo aperto. Centinaia di persone che si scazzottavano con tutta la violenza che avevano in corpo, qualcuno brandiva una spranga, altri si limitavano a mulinare cinture con borchie. Il piccolo piangeva, il padre cercava faticosamente, slalomeggiando fra i capannelli degli improvvisati pugili, una via d'uscita. Sembrò un miracolo, ma riuscirono a tornare a casa indenni.
«Mai più» giurò il genitore. Era il 15 gennaio 1978. Da quel giorno non volle più mettere piede al Comunale. A differenza del figlio che, forse più incosciente che coraggioso, dall'anno seguente, con la prima tessera Speciale Ragazzi (costo 15 mila lire), iniziò una lunghissima frequentazione dello stadio che prosegue ancora oggi, domenica dopo domenica, in una veste professionale allora nemmeno lontanamente immaginabile.
In lui hanno prevalso l'amore per il calcio, la passione per l'Atalanta, la curiosità per quel coacervo di sentimenti popolari che si scatenano dentro un catino di cemento armato. Ma gli è rimasta dentro una ferita. Profonda e dolorosa, anche se non visibile. Riaffiora ogni volta che assiste a episodi di violenza fuori e dentro lo stadio. Perché riporta in superficie, ora che il padre non c'è più, un legame spezzato, una condivisione di sentimenti e di passione impedita dalla prepotenza di chi ha usato il calcio come pretesto per dare sfogo agli istinti più bassi. Quante volte quel figlio avrebbe voluto emozionarsi e gioire accanto al suo papà. E invece si è trovato privato di uno dei più grandi piaceri della vita.
Chissà a quanti altri è capitato di vivere questa privazione. Certo non sono pochi se è vero, guardando gli spalti del Comunale, che di famiglie allo stadio non se ne vedono quasi. Viene da pensarci in questi giorni in cui dai freddi e burocratici verbali del Palazzo di Giustizia affiorano brandelli di conversazioni di ultrà che vanno all'Atalanta, come si dice da noi, con le intenzioni e l'assetto con cui si affronta una battaglia. I protagonisti non lo sanno, probabilmente non se ne rendono conto, o magari non se ne curano proprio. Con le loro gesta si rendono colpevoli di qualcosa di più grave di un reato, a cui comunque provvederà la magistratura se ve ne saranno gli estremi. Sono ladri di sogni, rapinatori di emozioni, sequestratori di passioni. La condanna è morale, non penale. E dovrebbe spingere tutti a isolare anziché coccolare i violenti. Lo si può fare non marciando al loro fianco per cause perse, non saltellando insieme su palchi da cui si lanciano messaggi ai limiti della civiltà, non contribuendo a scrivere volantini discutibili.
Solo così, forse, non capiterà ancora che un padre e un figlio incamminati gioiosamente verso lo stadio scoprano di non poter più festeggiare insieme la vittoria della loro squadra.
P.S.: quel papà, era il mio papà
Cesare Zapperi - bergamo.corriere.it
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