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Home Page > PATERNITÀ > Articolo Inserito il  09/06/2011

Rapporto tra padre e figlio: cosa porta ad un buon rapporto  
Paternità Oggi - Rapporto tra padre e figlio: cosa porta ad un buon rapporto

"N.d.R. Questo articolo che ho trovato, affronta il rapporto con il proprio padre, sopratutto per un figlio maschio. Il testo è suddiviso in varie parti; in ordine: un sunto per capire di cosa si sta parlando, un testo che illustra la rilevanza psicosociale della presenza/assenza del padre, statistiche di comportamenti sbagliati determinati da un cattivo rapporto padre-figlio, una serie di esempi di persone che hanno affrontato la terapia e in fine un tipo di approccio (le favole) che possono aiutare il rapporto genitore-figlio. Articolo lungo ma degno di nota"

Particolare attualità rivestono la teoria e la pratica delle sedute col “genitore omologo”, messa a punto dallo psicanalista Vittorio Volpi (1936 – 1998).
Un gruppo di discepoli del Volpi, che da decenni praticano questo metodo terapeutico, particolarmente efficace in casi di psicosi, documenta, in letteratura, la specificità della relazione padre – figlio per la costruzione dinamica dell’identità dei due soggetti maschi e la possibilità di utilizzarla in terapia.
L’utilizzo della figura del padre, per esprimere paure, aggressività e sentimenti, è efficace nelle attività di prevenzione del benessere, nelle drammatizzazioni del “Gioco – fiaba”, con bambini in età scolare e pre-scolare.
 
Assenza del padre: rilevanza psicosociale                
Il modello familiare classico, nell’immaginazione sociale, prevede una rilevanza della madre, nei processi di accudimento e di attaccamento  dell’infante, mentre la figura paterna rimane sullo sfondo e garantisce i rapporti con l’esterno, il sostentamento economico, essendo fonte riconosciuta di conoscenza del mondo, di norme e di autorità indiscutibile.

Nell’attuale società “liquida” (Bauman), si assiste a numerose variazioni di questo modello che, però, si ripropone, come archetipo, nelle aspettative dell’immaginario collettivo: ciò provoca effetti nei figli, sia relativi ai comportamenti e all’interiorizzazione di valori psicosociali e culturali, sia di tipo strutturale sulla formazione della personalità e della propria identità.
Infatti, nelle “famiglie”  in cui questo ruolo non è ricoperto da un maschio, perché il padre non c’è o “sparisce”, il dinamismo relazionale e intrapsichico  freudiano non  è agito.

Il figlio maschio non ha la possibilità di vivere la triangolazione edipica; i processi di proiezione, introiezione, contenimento e sublimazione con il Padre, con la Norma possono essere ridotti o mancare o sono svolti “al femminile”.
Inoltre, è assente la dialettica competizione – cooperazione col simile a sé, funzione fondamentale di strutturazione della identità personale (specchiarsi e riconoscersi nel genitore omologo, come propria origine reale e fantasmatica).
 
Ciò è chiaramente segnalato dai dati sociologici relativi a varie forme di devianza e disagio giovanili, come puntualmente registrato da Claudio Risé (2003).
Si sottolineano le conseguenze dell’assenza paterna nella strutturazione della personalità dei bambini e dei ragazzi: sembra, infatti, di poter porre una correlazione significativa tra comportamenti socialmente alienati e mancanza di un “corpo a corpo” col padre nella formazione del soggetto.
 
Dati tratti dagli Uffici del Censimento degli U.S.A.:
- il 90% dei senza fissa dimora e dei figli fuggiti di casa, non hanno avuto il padre in famiglia
- l’85% dei giovani in carcere sono cresciuti in famiglie senza padre
-  il 63% dei suicidi in adolescenza sono avvenuti in famiglie con padre assente.
 
Altri dati da altre fonti:
- il 70% dei giovani devianti ospitati in istituzioni statali provengono da famiglie dove non c’è il padre
- il 75% dei giovani suicidi è vissuto senza padre
- “L’adolescente che tenta il suicidio, a condizioni sociali, razziali e di reddito equivalenti a quelli che non lo tentano, di solito ha un contatto minimo o nullo col proprio padre”
- il 35% dei ragazzi senza padre ha fatto uso di droghe, contro il 18 % di quelli con padre in famiglia
- fra i giovani che esprimono comportamenti violenti a scuola la situazione familiare è 11 volte contro 1 quella dell’assenza del padre
- il 69% dei bimbi vittime di abusi sessuali viene da case in cui il padre biologico era assente
Altri dati forniti dal Ministero della Giustizia U.S.A. riguardanti giovani cresciuti in famiglie senza padre:
- il 72% degli adolescenti omicidi
- il 70% dei detenuti con lunghe condanne da scontare
- il 60% degli stupratori
 
L’osservazione della rilevanza della relazione tra l’adolescente e il genitore dello stesso sesso, per ottenere progressi terapeutici, è sicuramente esperienza comune, in ambito clinico. Negli ultimi trent’anni del XX° secolo si registrano, in letteratura, testimonianze in merito.
Trasformare questa osservazione empirica in teoria e utilizzarla in terapia psicoanalitica significa affrontare problemi di ristrutturazione del setting psicoanalitico classico e far evolvere il modello teorico freudiano, come dimostrano le seguenti documentazioni.
 
"N.d.R. Qui di seguito vengono presentati dei casi, poi pubblicati, seguiti da psicologi."

Alcune anticipazioni in letteratura
I trattamenti congiunti o paralleli sono abbastanza diffusi e documentati, in funzione delle varie scuole e metodiche terapeutiche (sistemica, familiare, ecc.)
In particolare, le relazioni tra figlia e madre, in funzione dei progressi in psicoanalisi, soprattutto con la diffusione di anoressie e bulimie, si possono considerare “acquisite”.
Di solito si invia la madre da un altro analista e si procede a scambi di materiale analitico tra colleghi. Non è sempre chiaro che materiali, e perché proprio quelli, vengono scambiati tra i due analisti.
L’esito positivo consiste in uno sblocco e in un progressivo miglioramento dei sintomi patologici o dei disturbi psichici e relazionali in entrambe le donne.
Il ruolo degli analisti è classico, cioè consiste nelle interpretazioni dei vissuti e in letture simboliche di gesti, relazioni: le azioni delle pazienti tendono a essere sempre lette come acting out.
 
I casi di analisi con padre e figlio hanno una letteratura più scarsa, ma sono più interessanti perché evidenziano gli elementi teorici della funzione del genitore omologo nell’organizzazione della personalità maschile e le modifiche del setting cui “costringono” l’analista.
 
Edgardo H. Rolla (1958) (Análisis contemporáneo de un padre y un hijo) presenta il caso di un padre con numerosa prole. L’analista accetta di analizzare anche il figlio undicenne, e lo fa giocare con i propri figli. Nelle sedute, utilizza prevalentemente l’interpretazione dei disegni del giovane paziente, mentre il padre porta materiale simbolico e psicosomatico e vissuti di suicidio e paranoici molto drammatici.
 
Arnold Wilson (1999) (A conjoint phase of treatment involving a severly disturbed adolescent boy and his Father) presenta un caso diverso: l’analista ha in cura un paziente il cui equilibrio è compromesso a causa delle criticità del figlio maschio diciottenne. Con lui ha una relazione simbiotica (come si riscontra di solito con la madre), ma reciprocamente distruttiva. E’ il padre che impone all’analista di prendere in analisi anche il figlio e che  gli telefona in emergenza per avere indicazioni circa il suo ruolo paterno, che non sa agire. Wilson sottolinea la dimensione educativa del rapporto analitico, sia col padre, sia col figlio.  L’analista, inizialmente dubbioso sull’opportunità di prendere in carico anche  il figlio, data la complessità delle condotte patologiche di entrambi, decide di fare sedute con padre e figlio: è in analisi che questi soggetti psicotici e simbiotici riescono a comunicare e a “conoscersi” e a dirsi, oltre i traumi delle loro due vite e oltre gli agiti sadomasochisti. L’analista coglie il diverso suo ruolo, nella triangolazione e del come transfert e controtransfert si svolgano tra padre e figlio, mentre egli diventa prevalentemente mediatore e facilitatore.
Wilson sottolinea che, in questo caso, tra padre e figlio si sia instaurata una relazione patologica simile a quella che tradizionalmente è descritta in letteratura tra madre e figlia o figlio. Secondo Freud, le dinamiche oggettuali si elaborano in presenza del padre, tra madre e figlio/a, mentre in questo caso il corto circuito simbiotico si instaura tra maschi, essendo la madre assente e psicoticamente concupiscente nei confronti del figlio, da sempre accudito dal padre.
 
Michael J. Diamond, Ph.D. (1994) (Fathers and sons: psychoanalytic perspectives on “good enough”fathering throughout the life cycle) effettua una puntuale ricognizione sull’importanza teorica e clinica del rapporto padre – figlio, sottolineando che il padre è stato sempre in ombra, nelle riflessioni psicanalitiche, anche a causa del modello edipico. In realtà l’interiorizzazione della figura paterna è operante in tutta la vita del figlio, dalla nascita sino alla vecchiaia: svolge complesse e differenziate funzioni nei processi di autonomia e progressiva individuazione del maschio, di conciliazione e riconoscimento della propria sessualità di genere. Si sottolinea anche il rapporto dialettico tra padre e figlio: mentre la figura reale e simbolica del padre opera nel costruire l’identità del figlio, è il figlio che “genera” nell’uomo la sua identità – coscienza di padre, specchiandogli l’immagine generativa: la presenza del figlio invera la fantasmatica, il mito di durare nel tempo, nelle generazioni.
 
La teorizzazione del “genitore omologo” elaborata da Vittorio Volpi
L’efficacia terapeutica e la specificità della relazione padre – figlio (il termine inglese, usato da Blos e citato da Wilson è  “isogendered”),  era già stata studiata e applicata nella prassi clinica  dallo psicanalista Vittorio Volpi (1936 – 1998), tra gli anni Settanta e Ottanta, e dai suoi allievi e collaboratori, ancor oggi pienamente attivi.  Si tratta del modello del “genitore omologo”.
Gli elementi di fondo di questa teoria sono i seguenti.
 
La relazione tra figlio e genitore dello stesso sesso agisce sempre nel dinamismo intrapsichico del figlio, in situazione normale o patologica. Ha funzioni di apprendimento e di evoluzione del soggetto, agendo sia sull’esame di realtà, sia sul gioco fantasmatico: è necessaria e vitale per la percezione soggettiva della identità e per la sua “maturazione”.
 
Nei  casi più o meno conclamati di psicosi,  un’analisi in presenza del genitore omologo ha alto valore terapeutico (è efficace: progressi significativi; è efficiente: minor tempo e minor numero di sedute)
 
Il setting e il metodo eliminano il lettino, per il paziente, e riducono l’azione di interpretazione dell’analista e la funzione delle associazioni. In presenza del genitore omologo, transfert e controtransfert, tra analista e paziente, si modificano e perdono la posizione dominante che hanno nel setting classico. Crescono le funzioni “educative” della mediazione (vs conflitto tra i due), della valorizzazione (vs svalutazione reciproca), della capacità di percepire l’empatia e l’induzione e di apprendere a utilizzarle come strumento di comunicazione d’inconscio (vs agiti e acting out).    
 
Il genitore come risorsa. Nel lavoro terapeutico, con particolare evidenza nelle situazioni psicotiche, si è sperimentato che la presenza del genitore dello steso sesso è un importante, e spesso determinante, fattore di elaborazione, riconoscimento e superamento delle crisi e delle sindromi patologiche. Il genitore è una potente risorsa antidepressiva e di riconciliazione del soggetto con sé stesso.
 
Il lavoro clinico fondato sull’uso terapeutico della relazione figlio – genitore omologo, permette di lavorare sia sugli aspetti intrapsichici che quelli interpsichici della patologia. La psicoanalisi classica freudiana tende a lavorare solo sugli aspetti intrapsichici, ritenendo che la patologia si sviluppi nel conflitto tra le diverse istanze mentre l’oggetto è presente solo per il soddisfacimento delle pulsioni. La psicoanalisi delle relazioni oggettuali, invece, pone la sua attenzione agli aspetti interpsichici, ritenendo che la patologia si formi nell’interiorizzazione di una “cattiva” relazione con l’oggetto che il soggetto si rappresenta nella mente.
 
 Attraverso il lavoro terapeutico con il genitore omologo è possibile incidere su entrambi gli aspetti in quanto è stato verificato che:
- il genitore omologo aiuta a recuperare i ricordi della prima infanzia, spesso dimenticati dal soggetto in analisi;
- il genitore omologo porta alla luce i momenti critici della vita del figlio e i cambiamenti avvenuti di conseguenza;
- il genitore omologo è in grado di riconoscere con maggiore facilità lo stato d’animo del figlio e di esplicitarlo in maniera da permettere una riappropriazione dei sentimenti;
- i conflitti interpersonali con le figure di riferimento trovano facile espressione all’interno del lavoro terapeutico con il genitore omologo;
- i conflitti intrapsichici vengono mitigati dalla rassicurazione del genitore;
- il recupero del rapporto d’amore tra padre e figlio, o tra madre e figlia, restituisce e ri-genera le risorse del figlio per affrontare i problemi della vita.

"N.d.R. Nei casi che seguono si può far capire meglio come funziona una terapia "familiare""

Il caso di Max (seguito dal dott. Fabrizio Forzan)
Max è in terapia da due anni e mezzo, con un iniziale presa in carico individuale e successivamente con il genitore omologo.  Sintetizzo i primi colloqui, per tracciare un profilo della sua personalità, e  poi descrivo il percorso terapeutico con il  padre.
Questo giovane, all’epoca ventinovenne, dice di essere già stato in terapia altre due volte dalla stessa psicologa, la prima a sedici anni e la seconda terminata l’anno precedente. Max riferisce che ha un’insicurezza di fondo, che non si sente al passo con le cose, che rimane sempre indietro su tutto, che pensa troppo e che quindi non riesce a concentrarsi su quello che sta facendo. Fa un sacco di errori, lo prendono in giro tutti per cui sente di non avere le “palle”.

Vive in casa con il padre e una delle due sorelle maggiori, mentre l’altra è sposata già da diversi anni. La madre è deceduta da circa due anni a causa di un tumore. Accenna al fatto che anche il padre ha dei problemi fisici in quanto ha subito l’anno precedente un trapianto di entrambi i reni, dopo aver ricorso per diversi anni alla dialisi.

E’ particolarmente arrabbiato con il padre in quanto quest’ultimo ha deciso, negli ultimi mesi, di rifarsi una vita, decidendo di andare a cercarsi una nuova compagna in Romania: ha portato in Italia una giovane donna, ma sia lui che sua sorella si sono rifiutati di accoglierla. Il padre si trova quindi costretto a soggiornare, insieme alla rumena, presso la loro casa di montagna. Da un mese e mezzo impediscono al loro padre di rientrare, se non da solo.

Descrive una prima esperienza “traumatica” quando i genitori decidono di iscriverlo in una scuola media prestigiosa, fuori dal suo paese, nella quale non si è mai integrato, perdendo anche gran parte delle sue amicizie. Per questo riesce a ritornare nel suo paese l’anno successivo.

Dopo la terza media si iscrive a Ragioneria e viene bocciato. Cambia e frequenta allora un istituto alberghiero vivendo in collegio per alcuni mesi. Quello è stato per lui un periodo “tragico” con continue umiliazioni subite dai compagni che lo trattano come lo “zimbello” della classe: parla di scherzi che gli avevano fatto venire anche la fobia della doccia. Per questi episodi decide di non soggiornare più nel collegio, ma di viaggiare tutti i giorni in treno.  Riesce a conseguire il diploma professionale di chef; poi si intestardisce sul fatto di prendere il diploma di maturità. Fa un esame integrativo, riprende gli studi di ragioneria e riesce a conseguire il diploma.

In seguito, comincia a  lavorare, affiancando il padre nell’attività di agente di commercio. L’obiettivo è quello di subentrargli entro pochi anni. Racconta di anni di incomprensioni e litigi con lui a causa dei suoi continui sbagli, tanto da dover rinunciare a questa occupazione. In seguito prova altri lavori come agente di commercio ma ricorda la sua paura di affrontare i clienti e quindi le giornate perse in macchina senza riuscire a varcare le porte di ingresso delle ditte.

Nell’ultimo anno si inserisce in una concessionaria d’auto ma i problemi rimangono inalterati, vende, in media, due o tre macchine al mese e nel frattempo ne rovina parecchie attraverso piccoli tamponamenti, quando le sposta. Si sente condizionato parecchio dai colleghi e dal direttore che lo spingerebbero a forzare i clienti nell’acquisto, mentre lui dichiara di andare nel “pallone” se non conclude la trattativa entro i primi cinque minuti.

Non ha particolari hobby perché tutto quello che inizia lo interrompe subito, così nelle attività sportive, così per la chitarra. Asserisce che l’entusiasmo per ogni attività passa subito. Lo stesso vale per i lavori di casa, descrivendo come abbia pitturato una cancellata in più anni, continuando a bloccare i lavori; si sente pigro.
 
Nei colloqui Max assume spesso un atteggiamento aggressivo, totalmente proteso verso il terapeuta, con una gestualità molto accentuata.  
Da questi colloqui faccio l’ipotesi che Max abbia avuto difficoltà a separarsi durante l’adolescenza, e che si sentisse particolarmente ricoperto di aspettative (mamma diceva “devi farti una posizione”) alle quali lui non era in grado di fare fronte.

La rabbia è inibita alla fonte, trova sfogo solo sui familiari, mentre non viene agita all’esterno. Max non si sente autorizzato a esprimerla all’esterno, deve mantenere la sua immagine di “bravo ragazzo” (egli arriverà a dire che è da incivili arrabbiarsi).

La percezione che ha di sé è profondamente negativa, tutto vissuto nei termini di “non avere le palle” e quindi di non essere duro o forte abbastanza. Ha gravi problemi di dipendenza da tutte le figure importanti della sua vita.
Le ipotesi diagnostiche che verranno però poi suffragate anche da altri elementi raccolti nei colloqui successivi mi sembrano legate a delle dinamiche di tipo narcisistico-masochistiche, per cui gli obiettivi sono molto alti, idealizzati, il mancato raggiungimento procura una rabbia che si ritorce contro di sé attraverso confusione, atti mancati, disorganizzazione nei comportamenti, che lo mettono sempre in condizione di fare “danni” e di essere preso in giro per la goffaggine con cui li combina.
 
Dopo circa sei mesi di terapia individuale gli propongo di portare in seduta il padre. Ritengo infatti opportuno aiutare Max a sbloccare la sua rabbia e riprendere il suo cammino attraverso il recupero del rapporto con il padre. Lui accetta e iniziamo un lavoro di sedute quindicinali.
Il padre è un signore di quasi settant’anni con un linguaggio molto colorito ma che riesce a rendere molto bene lo stato emotivo del figlio.

Max nei colloqui cerca di rimanere sempre ancorato ai suoi sbagli attuali, ma il padre va giù in maniera diretta a toccare i vissuti del figlio.
Più volte il padre esce con affermazioni del tipo: “tu mi vuoi ammazzare!”. Solo attraverso il riconoscimento della propria rabbia, Max arriva ad ammettere di aver preferito tante volte la morte del padre piuttosto che quella della madre. Solo quando riesce a piangere di fronte a questa consapevolezza Max incomincia a denigrare meno il padre.

Gli stessi sentimenti di vuoto e di nostalgia per la madre vengono segnalati dal padre attraverso frasi come: “mi manca la mamma”, agendo per identificazione proiettiva i contenuti inconsci che Max fatica portare alla luce. Attraverso questo passaggio Max riesce a comprendere come non sia l’unico “detentore” del dolore della morte della madre ( in precedenza dichiarava che con la mamma era andato via mezzo del suo cuore e si arrabbiava se qualcuno parlava in casa di lei) e a sentire che questo dolore è condivisibile e forse superabile.
Sempre attraverso il padre Max riesce ora ad esprimere l’invadenza delle sorelle e di tutte le altre figure femminili che in precedenza viveva come funzionali alla sua guida, ma destabilizzanti per lo sviluppo della sua indipendenza. Solo negli ultimi periodi riesce infatti a chiedere alle sorelle di non guardare più tra le sue cose nei cassetti della camera e a non allearsi con loro contro le scelte del padre.

In ogni seduta viene proposto l’abbraccio tra Max ed il padre per favorire la riscoperta di un rapporto che appariva come inesistente prima di questo intervento.
Attraverso questo lavoro Max riesce a recuperare fiducia nei suoi mezzi e ad affrontare, sia il rapporto di coppia sia il suo lavoro con maggiore serenità.
Frequenta stabilmente una ragazza da oltre un anno e sta riuscendo a non presentarsi più come “vittima” delle situazioni.
Nel lavoro, Max è riuscito, per un paio di mesi, a essere il migliore venditore della sua concessionaria e comunque ad assestarsi su livelli soddisfacenti di vendita.
                        
Il caso di Alex (famiglia ricomposta seguita dalla dott.ssa Laura Stellatelli e dal dott. Marco Fiorini)
Papà Leonardo (33 anni) è separato da un anno da Diana, per ora il Tribunale ha affidato i due figli, Alex (8 anni) e Federico (6 anni), al papà. Alex ha problemi scolastici e così Leonardo viene in seduta con Caterina, la compagna con cui convive da sei mesi. Leonardo si è separato perché Diana da qualche anno segue la dottrina di una setta religiosa e, a causa degli impegni per il proselitismo, trascura i figli per quanto riguarda l’igiene personale, il vestiario e anche il mangiare. Caterina (37 anni) a sua volta ha una figlia, Francesca (10 anni), che ha avuto dalla relazione con un uomo che non ha mai riconosciuto la bambina.

Gli analisti impostano un setting con cadenza quindicinale ovvero una seduta ogni due settimane della durata di 75’.
Alla quarta seduta la situazione è mutata, scopriamo che durante il periodo natalizio appena trascorso, il giudice, che cambia a ogni udienza, ha affidato i bambini alla madre. È un duro colpo per Leonardo che sente profondamente la disperazione dei figli e si rende conto del malessere psicologico di Diana che avrebbe principalmente bisogno di occuparsi di se stessa. Alex intanto continua a prendere brutti voti a scuola e ha accessi di rabbia: ha spaccato un piatto a casa della mamma. Leonardo, sostenuto da Caterina, usa questa fase dell’analisi di coppia per organizzare la battaglia legale: intervistano le maestre dei bambini e chiedono una perizia psicologica rivolgendosi al Tribunale dei Minori.

La situazione è problematica anche sul versante dei rispettivi genitori omologhi:
- la madre (52 anni) di Caterina è molto svalutata dalla figlia, in quanto ebbe un altro figlio (il fratello minore di Caterina) all’interno di una relazione extraconiugale: per questo Caterina a 18 anni fuggì di casa
- il padre (76 anni) di Leonardo è un trovatello e sposò una donna problematica che si tolse la vita quando Leonardo aveva 25 anni (la madre lasciò un biglietto attribuendo la colpa del suicidio al marito).

Il Tribunale dei Minori continua a rinviare la sentenza definitiva e così il malessere dei due bambini e la squalifica di papà Leonardo continuano indisturbati; le emozioni prevalenti in seduta sono: impotenza, rabbia e angoscia, mentre la figura del padre mantiene connotazioni di disprezzo.

In seguito Caterina riesce a portare in seduta la mamma  una volta al mese e a sciogliere con lei diversi nodi interferenti il loro rapporto. Leonardo invece non riesce a portare suo padre,  in quanto ricoverato in un istituto per anziani. Come Alex e Federico si sentono rifiutati dal papà non riuscendo a distinguere l’interferenza operata dalle decisioni del Giudice, così Leonardo si sente rifiutato dal padre che con lui sembra avere spesso un comportamento scostante. Lo sforzo relazionale di Leonardo in realtà è molto complesso trovandosi al centro della catena genealogica con alle spalle il padre, che ha subito il trauma dell’abbandono alla nascita e davanti i due figli che stanno soffrendo il trauma della separazione dei genitori. Infine Leonardo stesso ha ancora negli occhi il trauma del ritrovamento del corpo della madre suicidatasi con un sacchetto di plastica in testa.
 
Le cose precipitano quando, dopo diverse interruzioni/riprese dell’analisi e l’affido definitivo dei figli di Leonardo alla madre (la quale tra l’altro in diverse perizie, anche non di parte, era risultata “come se fosse altrove” e “non disponibile” come madre), Alex, ormai dodicenne, punta il coltello verso la madre. Era già successo un’altra volta ed era stato un coltello da cucina, la madre glielo aveva tolto di forza prendendolo per la lama, tagliandosi ovviamente; questa volta invece è solo un coltello da tavola molto meno tagliente, ma la rabbia è della stessa intensità. Evidentemente i tempi sono maturi e questa volta Diana riesce a chiamare Leonardo e a dirgli di venirsi a prendere Alex perché non riesce più a gestire il rapporto col figlio.

Leonardo e Caterina vogliono quindi riprendere le sedute e gli analisti impostano un setting di questo tipo:
- sedute quindicinali con la coppia Leonardo/Caterina (condotte dalla coppia dei due analisti) in alternanza con
-sedute quindicinali con Alex e il papà (condotte dall’analista uomo) durata di ogni seduta 75’.
 
In seduta papà Leonardo percepisce la rabbia indotta da Alex: il ragazzo fa fatica a riconoscerla come propria, mentre riesce parlare della paura che sente in casa della mamma, dice di avere impugnato il coltello per “difendersi” dal compagno di Diana che lo “stuzzica”. Alex impugnerà ancora una volta il coltello minacciando la mamma durante il primo weekend da lei, fra la prima e la seconda seduta, ma questa volta c’è subito una telefonata fra Alex e il padre durante la quale il ragazzo riesce a verbalizzare il sentimento di colpa.

Papà Leonardo ricorda che in un’altra occasione Alex aveva invece morso un polpaccio della mamma mentre questa stava parlando male del marito durante un colloquio allo S.P.E. Alex dice che a casa della mamma fa fatica a dormire e si sveglia alle tre di notte in preda alla paura.

L’obiettivo delle prime sedute è aiutare Alex a comprendere che il suo gesto è stata una richiesta d’aiuto nei confronti del padre: l’uso del coltello rivela le difficoltà di Alex, ma ora può rendersi conto che,  pur mantenendo il fine, può cambiare il mezzo, può esprimere al padre le sue emozioni e chiedere l’aiuto di cui ha bisogno.

Mamma Diana mette il lucchetto al telefono e il papà gli dice che quando è dalla madre può, in caso di emergenza, scendere al bar sottostante per telefonargli: l’analista sostiene la coppia padre/figlio nell’accordarsi per degli appuntamenti telefonici in modo che possa essere il papà a chiamare Alex, quando il ragazzo è dalla madre.

Alex va dalla logopedista “per recuperare”, ha problemi di disgrafia, ma scopriamo che quando si concentra con a fianco il papà, riesce a scrivere molto meglio. In seduta Alex esprime bisogno di contatto fisico col papà, gli appoggia spesso la guancia sulla sua e l’analista sostiene questa espressione spontanea del ragazzo, orientando il colloquio sulle sensazioni prodotte dal contatto con la barba del papà, l’odore della pelle del papà. Si parla di dormire di notte con lui, così Alex può riposare senza svegliarsi con la paura e frequentare la scuola più tranquillamente. Nella seduta si dà ampio spazio al contatto corporeo ed essendo Alex ancora mingherlino, anziché utilizzare l’abbraccio in piedi viene usato decisamente lo “stare in braccio”; il massaggio sull’addome fatto dal papà lo rilassa particolarmente.

L’analista sente spesso tristezza come vissuto indotto da Alex, mentre il ragazzo nega e manifesta a volte un atteggiamento di censura e provocazione, mettendosi a canticchiare. Alex successivamente riesce a esprimere la sua non sopportazione nei confronti della presenza, in casa col papà, di Caterina e di Francesca.

Alex ha molte paure, paura di far male al papà perché si sente in colpa per i suoi scarsi successi scolastici e soprattutto perché non si apre a lui, non gli dice cosa prova nel suo cuore, a tal punto che spesso racconta bugie e così a volte prende una sberla dal padre. Questa è la conseguenza della rabbia inespressa di Alex: papà Leonardo infatti spesso agisce l’ira negata dal figlio, accoglie su di sé la rabbia indotta da Alex, non ne distingue la provenienza, la crede propria e, facendola propria, la scarica sul figlio, non rendendosi conto che la restituisce al mittente. Nelle sedute di coppia, all’interno delle “restituzioni”, spieghiamo questi meccanismi di “induzione dei vissuti” esistenti nella dinamica figlio/padre.

La rabbia di Alex è una costante per molto tempo, è il “tappo” a tutti i sentimenti, finché, durante l’undicesima seduta, il papà verbalizza tristezza e anche l’analista prova, come emozione indotta, molta più tristezza del solito e chiede ad Alex se ha voglia di piangere; il ragazzo annuisce, l’analista lo invita a dirlo al papà, che a sua volta ribadisce al figlio di percepire la sua tristezza e il suo bisogno di piangere. Alex per la prima volta riesce spontaneamente e chiaramente a verbalizzare il suo stato d’animo al padre e gli si mette in braccio piangendo… non si stacca, comincia a singhiozzare… Alex accompagna l’espirazione con suoni acutissimi, di testa, poi chiede al papà di mettergli una mano sulla bocca dello stomaco… i suoni si fanno più gravi, continui glissati dall’alto (di testa) al basso (di gola e petto). L’analista ora avverte un brivido correre lungo la schiena, dalla nuca ai talloni… calore… occhi umidi… la voce di Alex diventa più nasale e poi gutturale… si sta meglio.

Alex ha aperto il tappo: sotto la rabbia c’era la tristezza e finalmente l’ha espressa, ha avuto il coraggio di versare le sue lacrime tra le braccia del papà ed è stato un pianto liberatorio durato più di mezz’ora.
Al termine della seduta l’analista scopre che, il giorno precedente, c’era stata la firma per l’affido definitivo di Alex al padre e di Federico alla madre.
Alex vive definitivamente col padre e va a trovare la madre una volta alla settimana e un weekend ogni due: Alex non ha più comportamenti aggressivi.
 
La prevenzione del disagio e la promozione del benessere nei bambini: la risorsa del genitore omologo nella drammatizzazione della fiaba di Carmen Greco
C’è un’opera di Paul Klee dal titolo: “Ha testa, mano, piede e cuore”, che rappresenta simbolicamente il rischio di un’educazione e formazione settoriale, in cui la persona non riesce a unificare, integrare in se stessa le varie dimensioni, cioè quelle psichica, sociale, affettiva, corporea.
Se non si vuole continuare a formare una persona divisa, che vive a settori e che rispecchia l’immagine di una società frantumata, è fondamentale improntare e favorire un’educazione globale nella quale ogni istanza dell’uomo venga considerata e sviluppata in un’ottica che tiene conto di una crescita unitaria, armoniosa, globale.

Poiché la creatività è un importante strumento per la salvaguardia dell’equilibrio psichico, abbiamo usato l’esperienza creativa del gioco fiaba nella nostro lavoro di prevenzione del disagio psicologico e per la promozione del benessere del bambino.
L’uso di strumenti creativi, contrariamente a ciò che si può pensare, facilita la funzione di avvicinamento alla realtà attraverso una presa di coscienza che si esprime attraverso un linguaggio simbolico e metaforico. L’elaborazione della realtà, attraverso la fiaba giocata, permette in primo luogo di reificare le emozioni che la realtà stessa suscita (anche quelle più scomode) e, in secondo luogo, di superare il senso di colpa, il giudizio e la vergogna attraverso, il meccanismo proiettivo sul personaggio.

La certezza del lieto fine favorisce il processo di ascolto e, quindi, l’accoglienza del messaggio proposto. Nelle nostre narrazioni  si tende a evidenziare la forza creativa dell’amore genitoriale che può trasformare e risolvere positivamente anche la situazione più terribile e apparentemente irrisolvibile

Lo strumento del gioco–fiaba è un’opportunità per evidenziare come le emozioni scomode possono trasformarsi, grazie alla risorsa del genitore omologo, in sentimenti positivi. Il rapporto d’amore esistente tra figlio e genitore non sempre viene esplicitato e valorizzato  poiché, a volte, è svalutato, considerato sconveniente e inadeguato rispetto alle richieste di “autonomia” provenienti dalla realtà sociale e dalle agenzie educative. Ecco allora che la fiaba può diventare un’importante mezzo di soccorso, un modo abituale  per aiutare il bambino ad accedere al suo spazio interiore, per conoscere e farsi riconoscere, attraverso il rimando alla figura genitoriale omologa.

L’uso della fiaba è rassicurante proprio perché si fonda su un codice condiviso (la parola) e nello stesso tempo può essere arricchita da altri linguaggi (gestuali, musicali, pittorici) che contribuiscono a rendere la comunicazione più ricca e creativa. Le nostre fiabe vengono sempre costruite ad hoc, a partire, cioè, dai dati raccolti che vengono poi ricostruiti e rielaborati con molta delicatezza e nel rispetto dei tempi di accoglienza del bambino.

La stanza dove si racconta la fiaba è un luogo speciale , uno spazio di benessere dove padre e figlio si possono incontrare. C’è qualcosa che rende la stanza dove si vive questa esperienza diversa dagli altri luoghi: è la sua funzione, l’uso che ne viene fatto. Non è solo un luogo dove giocare, esprimersi, sperimentare, ma è uno spazio – tempo rituale, in cui tutto ciò che avviene riceve un ordine, ha un significato e viene utilizzato per favorire la consapevolezza delle risorse a partire dal legame figlio- genitore omologo.
Inizialmente, è importante che il narratore faccia silenzio, che sia presenza per l’altro (spesso la presenza dà più sicurezza rispetto alla parola) e si ponga in ascolto.

Ascoltare significa comprendere e valutare i messaggi inviati dall’interlocutore, le sue idee, i suoi punti di vista, per entrare empaticamente in contatto con chi ci sta vicino. Significa cogliere il mondo emotivo e fornirgli il sostegno di cui abbisogna per avvicinarsi al suo riferimento naturale.
Come tutti ben sappiamo, il mondo emozionale del bambino è molto ricco e intenso e si corre il rischio che ne venga travolto senza  riuscire a dare un nome a ciò che prova. Per evitare ciò, attraverso l’invenzione e narrazione di storie, si possono affrontare i diversi sentimenti e condurre il bambino in contatto con la propria emotività.

La storia inventata, attraverso il superamento di ostacoli con l’aiuto di oggetti o personaggi magici, può fornire la possibilità di una rielaborazione della storia reale del bambino. Essa può diventare un facilitatore nella relazione figlio-genitore omologo e abbiamo constatato che risulta particolarmente efficace quando ci si trova di fronte a un forte disagio del bambino, alla chiusura, al silenzio ostinato e prolungato.
Tutte le volte che è possibile, noi invitiamo i genitori a presenziare ai laboratori, in modo che i bambini possano sperimentare attivamente la risorsa del genitore omologo, ciascuno con uno stile e una modalità propria.
L’obiettivo primario dei laboratori di gioco-fiaba è quello di favorire nel bambino una maggior fiducia in sé e, dunque, migliori capacità di relazione e rendimento scolastico.

La caratteristica fondamentale e peculiare di questa modalità di lavoro è che la presentazione del sentimento, del disagio,  della difficoltà , risulta al bambino sostenibile e condivisibile solo ed esclusivamente in quanto viene valorizzata la presenza delle risorse, sia personali, sia relazionali (in modo particolare, come più volte accennato, si fa riferimento al legame figlio- genitore omologo, quale garanzia per la conferma dell’identità psicosessuale in età evolutiva).

Durante i laboratori di gioco-fiaba si constata che il riferimento al genitore omologo, come risorsa, è colto quasi immediatamente, naturalmente. Alla domanda: “Pensate ora a qualcosa che vi fa stare bene, qualcosa che vi tranquillizza e di cui avete fiducia…” la risposta dei bambini quasi sempre è immediata, in modo particolare da coloro che vivono un rapporto d’amore, con i propri genitori, aperto e libero.

Chi invece è bloccato, spesso fa resistenza; ma proprio nello sviluppare il racconto fiabesco, con l’aiuto dell’operatore e dei compagni, l’io bambino riesce poi a interiorizzare che il legame d’amore con i propri genitori esiste e dà sicurezza.
Concludendo, la fiaba può avere un valore educativo e preventivo atto a favorire la crescita psico-affettiva, sana, emotivamente armonica, del soggetto, aiutando il bambino a dare un nome alle proprie emozioni e a fargli cogliere che esse, come tutte le storie, hanno un inizio, un’evoluzione, ma anche una fine.
 
Conclusione
All’interno dell’attuale articolato e tormentato campo psicanalitico, la riscoperta della teoria del genitore omologo e del metodo elaborati dallo psicanalista Vittorio Volpi (1936 – 1998) possono rivestire un ruolo di particolare interesse.
Egli capovolge un assunto predominante nel lavoro psicanalitico e psicoterapeutico e utilizza invece il rapporto primario col genitore dello stesso sesso come risorsa insostituibile nella cura sia di adulti che di soggetti in età evolutiva: si può constatare infatti l’efficacia del suo metodo sia nell’attività di prevenzione sia nella pratica clinica.

fonte: psicolab.it
articolo di Angelo Rovetta, Marco Fiorini, Fabrizio Forzan, Carmen Greco, Laura Stellatelli



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