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Scimpanzé: più sono amati da piccoli e più il loro cervello cresce e diventano intelligenti
Pubblicato il: 25/10/2010  Nella Sezione: Curiosità

Più un bimbo è amato ed è circondato d’affetto, più il suo cervello si espande. Si fortifica. Diventa intelligente. È provato, scientificamente. Stephen Suomi, primario del laboratorio di Etologia Comparativa del National Institute of Bethesda (nel Maryland), lo ha dimostrato con uno studio sulle scimmie. E dobbiamo crederci che valga anche per noi, visto che noi umani condividiamo con gli scimpanzé il 99% del codice genetico.

STRESS - Tutto succede nei primi anni di vita di un bimbo. Con l’adolescenza i giochi si chiudono. L’interazione gene-ambiente avviene infatti durante lo sviluppo. Questione di biochimica cerebrale. Suomi ha dimostrato come le relazioni di attaccamento sicuro a livello familiare formano un attività cognitiva del cervello superiore. Ma non solo. Con i suoi studi, il professor Suomi ha verificato anche che le relazioni affettivamente stabili forniscono agli individui la cosiddetta “resilienza”, ovvero la capacità di sopportare gli stress ambientali. E, al contrario, un deficit di affetti nell’infanzia può generare una disfunzione del gene della serotonina, ovvero la “molecola della depressione”.

ALLA SAPIENZA - Non è una voce isolata quella di Stephen Suomi. Anzi. Da domani e per tre giorni, in un convegno alla “Sapienza” a Roma insieme all’etologo Suomi si troveranno biologi come Enrico Alleva (Istituto superiore di sanità), psichiatri come Massimo Biondi (direttore di Psichiatria alla Sapienza), Athanasios Koukopolus (direttore di Aretaus) e psicologi clinici come Adele De Pascale (facoltà di Medicina alla “Sapienza”) per dire tutti la stessa cosa. Ovvero che la mente nasce dalle emozioni. Ognuno dal suo punto di vista. “Evoluzione, emozione, linguaggio, coscienza”, è il titolo del congresso della Sapienza. «Dove si sancisce una conquista importante: la psicoterapia non litiga più con la psichiatria biologica», dice la professoressa De Pascale. E spiega che questo è possibile grazie agli approcci cognitivi post-razionalisti, aggiungendo: «Anche le relazioni terapeutiche modificano la biochimica cerebrale».

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