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Ok le regole, ma le emozioni? Terza parte
Pubblicato il: 25/09/2011  Nella Sezione: Tutto io devo fare

 “Ecco la terza parte dell'articolo di Paterpeur, un papà che si racconta. Leggete anche la prima parte e la seconda parte. (laRedazione)”

Ma a che cosa servono le emozioni? Ed è sufficiente parlare di emozioni?

Per tutti è d’obbligo citare Goleman con i suoi lavori sull’intelligenza emotiva, saggi che al piglio divulgativo uniscono una documentazione accurata. Libri da leggere e rileggere, che possono “aprire un mondo”. Non sarebbe male, anche per curiosità, riuscire a trovare “L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali” (1872) a firma nientepopodimenoche di mr. Darwin, il quale si avvalse della collaborazione di diverse decine di antropologi e studiosi in varie parti del mondo per corroborare l’ipotesi secondo cui esistono emozioni universali (Darwin descrisse una serie di espressioni facciali rilevate in Europa e associate a particolari emozioni: “Lo stupore viene dimostrato spalancando gli occhi e la bocca e tenendo sollevate le sopracciglia”) condivise ovunque sulla Terra.

Nel corso dei decenni psicologi e psicofisiologi hanno dibattuto a lungo sul che cosa fossero le emozioni. Non c’era però una chiara distinzione tra emozioni, stati d’animo e sentimenti.

Su che cosa sia l’emozione le teorie sono tante, a partire da quella di James-Lange (William James, psicologo e Carl Lange, fisiologo) che a fine Ottocento conclusero che le emozioni dovessero avere una componente fisica. Interessanti le ipotesi di Scachter e Singer che all’inizio degli anni Sessanta elaborarono un modello detto “teoria del juke box” che prevedeva la sequenza: stimolo-attivazione generalizzata-valore cognitivo-emozione. La teoria prevedeva che a fronte di un’attivazione fisiologica fosse la componente cognitiva a determinare il “segno” dell’emozione.

Nel decennio successivo dominò la scena la teoria di Solomon e Corbit (teoria del processo in opposizione) secondo cui l’organismo produce sempre risposte emozionali opposte (la paura e il sollievo ad esempio); l’emozione in opposizione ha un’attivazione più lenta e ha la funzione di smorzare la risposta primaria per evitare sovraccarichi. In questo caso l’emozione “B” avrebbe anche il compito di preservare l’organismo e la specie perché emozioni troppo forti possono essere debilitanti o interferire con l’apprendimento di nuove informazioni.

Anche grazie ai contributi di Le Doux (“Il cervello emotivo” del 1998 è una gran lettura) si può definitivamente concordare (era l’ora dopo un secolo di teorie!) che le emozioni siano una componente fisiologica arcaica, primitiva, animalesca.

Sulla questione delle emozioni di base, se è universalmente condiviso il fatto che esistano, è difficile orientarsi. Watson nel 1924 individua tre emozioni presenti già a livello neonatale: paura, ira e amore. Nel 1932 la Bridges classifica una serie di emozioni differenziate e complesse già all’età di due anni, a partire da uno stato di eccitazione indifferenziata proprio del neonato nei primi giorni di vita; secondo la sua teoria quasi tutti gli schemi di comportamento emotivo dell’adulto sono evoluzioni di queste emozioni “di base”. Schlosberg nel 1952 in una ricerca sulle espressioni facciali delle emozioni elabora uno schema che si estende lungo una doppia dimensione: piacevolezza/spiacevolezza, interesse/rifiuto; lo schema ricomprende all’interno di questi assi, qualsiasi emozione. Plutchick negli anni Ottanta determina 8 emozioni primarie (amore, ottimismo, aggressività, disprezzo, rimorso, delusione, spavento, sottomissione) e 8 emozioni che derivano dall’associazione di coppie di emozioni primarie. È del 1992 il lavoro di Paul Ekman in cui si individuano 6 emozioni di base (gioia, sofferenza, rabbia, paura, sorpresa, disgusto). Nel 2004 Evans definisce le “reazioni emotive di base”: paura, collera, dolore, gioia.

Personalmente opto per Ekman.

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