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Sylvia Plath o la proibizione di soffrire
Pubblicato il: 11/06/2011  Nella Sezione: Tutto io devo fare

Sto leggendo con mia grande meraviglia uno dei libri 'fondamentali' sull'infanzia: La persecuzione del bambino, di Alice Miller, la celebre psicanalista e divulgatrice che, a un certo momento della sua vita - quando si accorse che "la teoria e la pratica psicanalitica mascherano o rendono irriconoscibili le cause e le conseguenze dei maltrattamenti infantili, tra l'altro qualificando come fantasie quelli che invece sono fatti concreti" - decise di uscire dall'Associazione internazionale di psicanalisi. 
"Gli studi filosofici, la formazione psicanalitica e l'esercizio della professione di analista mi impedirono per lungo tempo di rendermi conto di molti fatti - racconta la Miller -. Riuscii a poco a poco a scoprire la mia storia, fino a quel momento rimasta nascosta, solo quando fui disposta a eliminare la mia rimozione, a liberare la mia infanzia dalla stretta gabbia delle convinzioni pedagogiche e della teoria psicanalitica, allorché rifiutai l'ideologia secondo cui è bene dimenticare e perdonare, mi alleai con il bambino maltrattato e, grazie alla terapia intrapresa, imparai a esprimere i miei sentimenti" (La persecuzione del bambino, Bollati Boringhieri, 2003, p. VII).
Nella sua opera la Miller sottolinea proprio l'importanza per i bambini di poter esprimere i sentimenti, la sofferenza, il dolore, perché "non è tanto la sofferenza causata dalle frustrazioni a produrre la malattia psichica, quanto la proibizione di soffrire, di vivere e di esprimere il dolore dovuto alle frustrazioni subite , proibizione che viene imposta dai genitori e che perlopiù vuole tutelarne i meccanismi di difesa. Gli adulti - continua la studiosa - sono liberi di prendersela con Dio, il destino, il governo o la società quando si sentano ingannati, ignorati, puniti ingiustamente, messi di fronte a pretese eccessive, o nel caso in cui qualcuno racconti loro delle frottole; il bambino invece non può prendersela con i suoi dèi, ossia con i genitori, né con gli educatori. Non gli è mai concesso di esprimere le sue frustrazioni, e deve rimuovere o rinnegare le sue reazioni emotive che continueranno a proliferare in lui fino all'età adulta, quando potranno trovare modo di scaricarsi in forma mutata. Le forme di questa scarica emotiva vanno dalla persecuzione attuata sui propri figli, con l'ausilio dei principi educativi, a tutta la gamma dei disturbi psichici, alle tossicomanie, alla criminalità e infine al suicidio" (p. 228).
Fu quest'ultima l'estrema soluzione che Sylvia Plath decise di adottare, principalmente a causa del fatto che - secondo la Miller - non aveva nessuno a cui comunicare il proprio dolore. Alla poetessa americana non bastava la forma lirica dell'espressione e nemmeno poteva scrivere delle vere lettere alla madre, dato che la genitrice si aspettava sempre di essere compiaciuta dalla figlia, la quale dunque le dava tutte le rassicurazioni di cui aveva bisogno.
Non bastò alla giovane Sylvia lo sfogo dei suoi versi, ma proprio attraverso una poesia l'autrice di Ariel ci spiega il perché:

Tu mi chiedi perché mai io passi la vita a scrivere.
Lo trovo forse un divertimento?
Ne vale la pena?
Ma, soprattutto, è ben pagato?
Altrimenti, quale sarebbe il motivo?...
Io scrivo solo perché 
c'è una voce in me 
che non vuol tacere.

Mi sembra che la Plath scrisse questa lettera in versi all'età di sedici anni. Ne amo molto le ultime tre righe, che reputo una testimonianza di quanto i sentimenti non espressi - in accordo con la Miller - non muoiano soffocati dentro di noi, ma ci sopravvivano soffocando invece la nostra stessa vita. Quando non abbiamo nessuno a cui raccontare i nostri stati d'animo è come se vivessimo sotto una campana di vetro. Una campana di vetro, guarda caso, proprio come il titolo omonimo del romanzo della scrittrice americana. 

Scritto da Cristiano Camera - www.figliopadre.com