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Arnoldo Foā, confessione di una sconfitta come padre
Pubblicato il: 31/01/2011  Nella Sezione: Paternitā

Il sorriso conserva l'innocenza disarmante di un bambino. E la voce è sempre quella, sembra uscire da una caverna preistorica. «La mia voce? - dice - Non me ne frega niente. Eppure ha avuto il suo successo. Non l'ho scoperta io, l'hanno scoperta gli altri. In casa, nessuno ha mai detto di ammirare la mia voce. Non mi ricordo. Mia moglie sì...». Anna ricambia il sorriso: «La voce? No, non è stata la prima cosa, direi di no...». Seduto alla sua scrivania, la pipa accesa tra le dita di una mano, il manico del bastone nell'altra, Arnoldo Foà sfoglia la sua Autobiografia di un artista burbero (Sellerio). «Perché burbero? Sono buono come il pane. Burbero è uno che anche quando dovrebbe comportarsi dolcemente si comporta con cattiveria. Sono burbero?». Anna lo guarda con dolcezza.

Non è un tipo facile, Foà. Non è facile intervistarlo. Gli piace mostrarsi scontroso per poi sorridere, sbuffare, magari mandarti a quel paese. A 95 anni (compiuti la scorsa settimana), può permetterselo. Suo padre lo guarda severo da una grande fotografia appesa a una parete dello studio: «Papà mio è... lassù, c'è un ritratto, e io me lo guardo con grande affetto. Mia mamma amava tanto mio fratello Piero e poco me, non so perché... Una volta che decise di andarsene con Piero, mi disse: tu sei figlio di tuo padre, resta con lui!». Il piccolo Arnoldo si aggrappò alla sua gonna per non farla partire e ricevette uno schiaffo. «Papà era un uomo, non lo chiamerei in un altro modo, bello, simpatico. Gli piacevano le donne e l'amore di mamma per papà non era una gran cosa».


Foà abbassa lo sguardo alla pipa e aggiusta il tabacco con la punta annerita delle dita. Ricorda quando da ragazzo, a Firenze, lavorava nel negozio di ferramenta di suo padre: «Papà non era molto brillante negli affari, ma lavorare in un negozio significa conoscere l'umanità, conoscere la vita e io da ragazzo la vita l'ho conosciuta abbastanza presto. Altre cose da chiedere?». Quanto conta la psicologia per la recitazione? Nietzsche diceva che se provasse davvero il sentimento che esprime, l'attore sarebbe perduto. «È tutto, l'uomo si esprime psicologicamente con la sua sostanza, per quello che è. L'incontro con un personaggio, come con una persona, ti obbliga a una comprensione profonda. Ma lei tanto non capisce niente...». Risata. I personaggi in cui si è riconosciuto di più? Pausa di riflessione. «Tutti, perché quando faccio un personaggio sono lui, in un modo talmente profondo che non si esprime solo con le parole, ma anche con gli sguardi, i gesti, i rapporti con gli altri».

Le amicizie forse sono un po' la stessa cosa. Richiedono comprensione, e la comprensione richiede conoscenza. Amici nell'ambiente teatrale? «Nessuno. Con Gassman abbiamo avuto un rapporto amichevole, non proprio di amicizia. Vittorio era una cara persona la quale aveva un tale amore per se stesso da lasciare un po' in osservazione gli altri. Con Mastroianni, grande stima, era un bravo attore». Rivolto ad Anna: «Tu ti ricordi qualcosa?». Anna non può ricordarselo, giovane com'è. Ma fa i nomi di Amedeo Nazzari e di Alberto Lupo, e gli occhi di Foà si illuminano. E poi Rina Morelli: «Adoravo la sua semplicità, la grazia, la freschezza. Non era un'attrice. Era lei dentro il personaggio. Che bella che era, Rina!». Giorgio Strehler è il ricordo lontano di un litigio: «Mi tagliò una battuta e gli dissi che non ero d'accordo. Rispose: il regista sono io. Quando poi voleva restaurarla, gli dissi di no: perché io sono l'attore... A distanza di anni, disse: ho un debito con Foà».

Anche con Luchino Visconti le cose non andarono troppo bene: Foà fece tre spettacoli con la sua regia. Era da tempo che non si vedevano e incontrandolo un giorno sul Tevere, Visconti gli chiese: «Perché non mi telefoni mai». Risposta: «Tu hai il mio numero, se hai una parte da offrirmi puoi chiamarmi». Passarono cinque o sei anni di silenzio e si rividero a Londra, una sera, dopo la prima de Le notti bianche. Luchino chiese un parere ad Arnoldo e la risposta fu franca al punto che lì si chiusero per sempre i rapporti tra il regista e l'attore. Non è un tipo facile, Foà. Burbero? Qualcosa del genere.

Nel libro racconta di essere fuggito di casa giovanissimo, poi ricorda il tempo delle leggi razziali che lo costrinsero, giovane ebreo, a lasciare il Centro sperimentale di cinematografia e a recitare con lo pseudonimo nel Giulio Cesare diretto da Giovacchino Forzano a Verona. Quando il regista gli sentì recitare le prime battute nel provino, si commosse: «Ma tu sei Bruto!», esclamò. Ricorda Foà: «Alla prima, essendo ebreo, mi fu proibito di uscire per raccogliere l'applauso. Fu per me uno dei momenti di tragedia, ma la gente impazzita veniva nel camerino a congratularsi». Dopo la guerra, Paolo Grassi gli disse di aver visto, qualche anno prima, un paio di bravissimi attori, vecchi e giovani, che non conosceva: era sempre Foà, che recitava sotto falso nome per le leggi razziali. Racconta che ancora adesso gli capita di sognare Mussolini e di svegliarsi prestissimo ricordando di averlo visto, da ragazzo, fiero e impettito a cavallo. Come ha vissuto la discriminazione razziale? «Con un misto di consapevolezza e di incapacità di capire. Poi, studiando le colpe, sono arrivato a giudicare. Ho dovuto soffrire, questo sì, perché non ho mai negato di essere ebreo. Ma lei non capisce...».

Tanti amori, quattro mogli, cinque figlie, Annalisa morta giovane. Un bilancio: ha prevalso il dolore o l'amore? «Direi che ha prevalso l'amore, sì. Ho una tendenza all'amore, non fisico con una donna, ma l'amore per le persone, per gli spiriti, per le personalità, che sono le cose più belle sulla faccia della terra, perché sono diverse l'una dall'altra. Lei è diverso da me. Per fortuna. Mia, ovviamente». Ovvio. Amore tutto terreno, si direbbe, se è vero che la dimensione trascendentale non è mai entrata nel suo panorama mentale, spirituale, neanche in vecchiaia: «L'ateismo non l'ho maturato, mi sentivo ateo fin da ragazzino. Mio padre era religiosissimo quando le cose gli andavano bene, molto meno quando gli andavano male».

Il passaggio da figlio a padre? «Da padre ho capito di essere debole e di non essere importante come avrei dovuto. Me ne vergogno. Non sono stato autoritario. Mi è mancato tutto, non sono un padre, sono un fratello delle mie figlie, un compagno. Non è bello». La fuga alle Seychelles per quattro anni, con il primo governo Berlusconi, è stata raccontata come un esilio politico: dopo aver sofferto il fascismo, gli ex fascisti tornavano al potere... «In realtà decisi di rimanerci, più che di andarci. Mentre l'Europa è un'espressione della civiltà, le Seychelles sono un'espressione della natura, gli uomini somigliano alle piante, agli animali, agli uomini, è un modo di vivere naturale. In Europa si vive artificialmente, devi pensare a chi sei, a cosa pensi, a chi credi. Belle le Seychelles, belle! Ho fatto un quadro in cui ci sono un uomo e una donna nudi che parlano, non c'è altro, sono veri, tranquilli, non c'è desiderio, parlano... Faglielo vedere, Anna, tiralo giù, che ci vuole?».

Negli anni Sessanta Foà fu consigliere comunale per il Partito radicale. La politica oggi? «Mi ha sempre interessato pochissimo. Interessa agli imbecilli, la politica. Se è fatta bene, non chiamiamola politica. Vederla in televisione, poi... mi dà fastidio». Risata. «Adesso ancora più di prima». Nuova risata. «A parte l'amore che ho per Silvio, per quest'uomo meraviglioso, stupendo. Un attore? No, no, c'è una differenza, l'attore cambia, fa diversi personaggi, lui purtroppo ne fa uno solo». Pipa, tosse, nuova risata. «Adesso basta, mi faccia l'ultima domanda e basta». Eccola, l'ultima.

 

Quanto pesa la vecchiaia? «L'età non mi pesa, la vita sì. Non mia moglie, non il passato. Mi pesano i minori interessi che ho adesso e che prima erano tanti, la pittura, la scultura, la poesia. Per fortuna c'è la musica, Beethoven mi piace da morire. E poi leggo... i libri di Foà... Poesie non ne scrivo più. Anzi, ne ho scritta una bellissima che dice: "Gli anni li compi, ahimè, una volta sola...". E adesso basta». Rimpianti? «Avere accettato questa intervista».

Paolo Di Stefano: corriere.it