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Ambrosoli, Calabresi, Alessandrini: i figli parlano dei loro padri uccisi negli anni di piombo
Pubblicato il: 15/10/2010  Nella Sezione: Paternitā 

Lezione di civiltà ieri sera al Teatro Comunale di Ferrara: sul palco Federico D’Anneo, direttore della Fondazione Forense Ferrarese e promotore dell’iniziativa, ha introdotto di fronte al numerosissimo pubblico Mario Calabresi, Umberto Ambrosoli e Marco Alessandrini. Tutti figli di padri assassinati per mano di terroristi. Hanno raccontato le rispettive sfogliando le pagine dei ricordi personali, privati. “Se mi succede qualcosa…, storie di uomini perbene e delle loro famiglie nell’Italia degli anni settanta’’ – questo il titolo dell’incontro – ha significato per i presenti il richiamo ad un passato ancora misconosciuto e a una idea di dignità e rettitudine che oggi risulta un po’ in disuso.

Gli anni di piombo in Italia sono stati la cornice buia dell’adolescenza di Mario, Umberto e Marco, appena bambini all’epoca della morte dei rispettivi padri. Da adulti, ieri sera, sono riusciti a raccontare al pubblico ferrarese una versione inedita della vita di ognuno di loro.

Molto si è dibattuto sulla parola “eroe”, attribuita tanto a Luigi Calabresi quanto a Giorgio Ambrosoli ed Emilio Alessandrini. “Dire che mio padre sia stato un eroe svilisce il suo ruolo, le sue scelte – ha spiegato Umberto Ambrosoli –, quando invece lui a quarant’anni era un normalissimo avvocato al quale era stato affidato un incarico difficile (fu infatti nominato commissario liquidatore della Banca Privata Italiana di Michele Sindona e ammazzato per mandato dello stesso nel 1979), incarico che lui aveva accettato prendendosi carico della responsabilità che il suo ruolo avrebbe comportato. Mio padre agì sempre in base a valori radicati e facendo leva sulla sua stessa preparazione: limitando l’importanza della sua storia solo al fatto che sia morto per mano omicida, noi tutti perdiamo l’occasione di coglierne l’esempio e di crescere come cittadini migliori”.

Concorde Mario Calabresi, che ha a lungo insistito sulla consapevolezza del padre – commissario di Polizia, ucciso nel 1972 da esponenti di Lotta Continua perché imputato della morte per defenestrazione dell’anarchico Giuseppe Pinelli -  del rischio che correva ogni giorno lavorando a Milano. “Mia madre ricordava spesso di un pranzo domenicale a casa dei miei nonni materni, durante il quale il nonno propose a mio padre un nuovo lavoro, meglio pagato e più sicuro- ha raccontato il direttore de “La Stampa” – ma lui rifiutò, spiegando che non avrebbe lasciato la città e i suoi compiti come un fuggitivo colpevole. In un paese normale fare il proprio lavoro, al di là delle convenienze contingenti,  soprattutto farlo fino in fondo, non fa di un uomo un eroe”.

Grande apprezzamento per l’iniziativa e spirito di fratellanza con gli altri due ospiti hanno spinto Marco Alessandrini a partecipare e a parlare di suo padre – magistrato italiano, assassinato durante gli nel 1979 da un commando del gruppo terroristico Prima Linea, che gli contestava il lavoro svolto sulla formazione della matrice di terrorismo di estrema sinistra.  “Mio padre era un ragazzo che amava il proprio lavoro e per questo fu ucciso ma non è per questo che lo si può definire un eroe, non c’è niente di eroico in una persona che assolve al proprio compito con entusiasmo. Però, quando un argomento simile richiama tanta gente e riempie un teatro, mi fa piacere pensare che il suo esempio – fare il proprio dovere, qualsiasi cosa succeda – possa essere attuale per tutti noi”.

La dimensione profondamente privata del ricordo è salita dolorosamente alla luce quando D’Anneo ha fatto riferimento ad una lettera che Giorgio Ambrosoli aveva scritto alla moglie nel 1975 – quattro anni prima che fosse assassinato, sentendo di aver fatto una scelta difficile e che avrebbe portato a delle conseguenze dure – nella quale raccomandava alla giovane donna di crescere i loro bambini nel nome di quei valori e princìpi nei quali loro stessi profondamente credevano. “Tutti noi nella vita arriviamo ad un alto momento di consapevolezza nel quale ci rendiamo conto che le nostre responsabilità convergono su una scelta piuttosto che su di un’altra – ha spiegato Calabresi – e discostarsi dalla scelta più vera, nostra, adducendo degli alibi, quale può essere ad esempio la protezione della propria famiglia, vuol dire rinunciare alla possibilità di realizzare a pieno le proprie potenzialità”. “Rinunciare a questa opportunità significa non essere fedeli a se stessi – ha aggiunto Alessandrini- e quindi nemmeno alle persone che ti amano per quello che sei”.

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