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"Niente figli, sono un altruista", cresce la schiera delle persone che si rifiutano di procreare
Pubblicato il: 18/09/2010  Nella Sezione: Genitori

Mi basta essere zia». Alla fine, ridotta all’osso, è questa la filosofia di Elizabeth Gilbert. Autrice bestseller e unica autoreferenziale protagonista di Eat, Pray, Love. Specie se uno, dopo aver visto il filmone con Julia Roberts tratto dal libro, in uscita nei cinema italiani, sfoglia anche il nuovissimo sequel del romanzo, Committed. «Mangia, prega, ama» smonta, come è noto, il mito della famiglia tradizionale e dell’orologio biologico: perché consumarsi tra mariti noiosi e pannolini quando c’è un mondo da esplorare e assaggiare? Il nuovo diario-viaggiante di una delle autrici americane più popolari degli ultimi anni però si spinge oltre e dice, in pratica: «Il nostro amore (quello nuovo) funziona perché nessuno dei due vuole costringere l’altro all’allevamento di nuovi esseri umani». Carini i figli degli altri, insomma, ma la base di un’esistenza soddisfacente e di una buona vita di coppia è la non-procreazione. Radicale, ma perfidamente trendy. Perché le prime pagine saranno anche per le mamme ultra-longeve ma, sottotraccia, questo è l’anno dell’orgoglio child-free. I teorici della vita senza figli sono sempre di più, sono sempre più spesso in coppia, sono orgogliosi di se stessi e oggi ti dicono: «Siamo il futuro». Anzi: «Siamo dei benefattori».

Qualche esempio? La Festa dei non-genitori, lanciata l’anno scorso in sordina da una coppia di Bruxelles, ha raddoppiato con un’edizione parigina che quest’estate ha fatto parlare mezza Francia e ha prodotto cloni in America e altri Paesi europei. Proprio con la Fête des non-parents si apre il docu-film in progress Maman, non merci, nel quale la cineasta canadese Magenta Baribeau sta raccogliendo materiale e interviste sulle coppie child-free, dalle storie di vita a scampoli ultratrash come il video della cantautrice GiedRé che, alla tv francese, canta la sua Ode alla contraccezione o il fiammeggiante saggio-autoanalisi L’Enfantasme di Katia Kermoal, una fenomenologia del bambino (degli altri) molesto, appena riedita in Svizzera.

Associazioni, meeting e meetup on line di non-genitori di ogni età ed estrazione sociale si moltiplicano in tutti gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Aumentano anche le star dichiaratamente no-kid, da Hugh Grant («Figli? No, detesto il disordine! ») a Cameron Diaz. E prolificano anche i siti di child-free dating, per far incontrare partner che si giurano eterna sterilità. Tre anni fa, in No Kid: quaranta ragioni per non avere figli, la psicanalista francese Corinne Maier assaliva per la prima volta dai tempi del femminismo anni ’70 il dogma che solo con la prole una donna poteva dirsi pienamente realizzata. Si partiva da un pesante coming out: «Rimpiango quello che ho perso diventando una mamma» per arrivare al seguente messaggio. Primo: fare figli comporta problemi, rischi e rinunce (dal parto, alla non vita sessuale, alle spese, alle frustrazioni per figli che difficilmente saranno perfetti come nelle pubblicità) che nessuno, prima, vi spiegherà. Secondo: liberatevi dalla pressione sociale che vi vuole madri e decidete da sole.

Ricordate? Allora la community Quimamme lanciò in risposta il manifesto Sì, kid, mentre il quotidiano cattolico Avvenire collezionò “40 motivi per avere figli”. Intanto i blog di tutta Europa (“pancia” virtuale d’Occidente) si intasarono di post di non-mamme e non-papà che finalmente si sentivano capiti. Un’ode a quello che tutti pensano ma nessuno ha il coraggio di dire. Era l’inizio del moderno No-kid Pride diffuso. Ovvero, figli se ne fanno meno, adesso è l’ora di dire anche perché. Anche se le varianti e motivazioni profonde sono tante.

Sempre più blogger, intanto, scrivono che ci sono da smontare secoli di retorica familistica. In Italia - repubblica contraddittoria, fondata sulla Mamma ma col record di denatalità - l’autrice del blog Mamma? No, Grazie scrive: «E se io non volessi che venissero? Adoro i bambini. Ma ho fatto qualcosa per me: non ne ho procreati». E Rick, su alfemminile.com: «Ma ci rendiamo conto della responsabilità di avere un figlio col mondo che c’è? E io dovrei vivere col pensiero di un mutuo, un sacco di soldi per lui/lei e tutti i problemi che porta una nascita? Io credo che impazzirei, non vivrei più». È la paura di non farcela, che un figlio voglia dire la rinuncia ai propri sogni: carriera, viaggi, sesso, politica, amici. «Dovrei far vedere gli sms della mia (ex) amica laureata con il massimo dei voti» posta Anna «ora autodeclassatasi a cerebrolesa, tipo: “Il mio tesorino è andato dal parrucchiere…”». Per la cronaca, la maggior parte delle risposte sono d’accordo con lei. Poi c’è il rifiuto “filosofico”: perché donare ad altri una vita che è spesso solo sofferenza (del resto lo diceva anche Arthur Schopenhauer )? E c’è l’ostilità verso il “bambino piccolo”, oggetto oggi misterioso (solo circa 4 italiani su 100 hanno meno di 5 anni), ingestibile e fastidioso. «Ti ritrovi a cena con amici con i quali è impossibile avere una parvenza di conversazione» racconta la blogger Blimunda «perché i bambini strepitano, lanciano oggetti, o meglio, ti si lanciano addosso prendendo la rincorsa dal corridoio. I genitori? Impassibili ». Seguono varie pagine di commenti entusiasti.

Alza il tiro lisa hymas, dal portale statunitense ecologista grist.org: non procreare non è solo un diritto, non solo ci si risparmiano problemi e spese (291.570 dollari nei primi 18 anni di vita, secondo dati raccolti dall’autrice), ma è una scelta “verde”. La soluzione a sovrappopolazione, innalzamento degli oceani e povertà. «Puoi vivere in una casa ad alta efficienza energetica, muoverti solo a piedi, in bici o con i mezzi pubblici, volare poco, comprare a chilometri zero, mangiare vegano. Per tutta la vita. Tutto ciò non contribuirà neanche lontanamente a migliorare l’ambiente quanto la decisione di non mettere al mondo un altro americano».

Ci sono anche i numeri: ogni figlio “costa” 9.441 tonnellate di CO2, moltiplicando con la sua vita il tuo contributo all’inquinamento dell’atmosfera. E i “danni” della discendenza? Incalcolabili. Di qui l’immancabile acronimo: «Mi dichiaro Gink: Green inclination no kid», nullipara (se proprio volete il termine tecnico) per scelta ecologica. Ma i child-free consapevoli sono un’élite illuminata? No: secondo una ricerca citata dalla Hymas, nel 2002 il 59 per cento degli adulti americani negavano che una vita senza figli sia vuota (nell’88, erano il 39 per cento), e solo il 41 per cento, nel 2007, pensava che i figli fossero centrali nel matrimonio (erano 65 su cento nel ’90). Ci sono poi Gink moderati, che aprono alla possibilità dell’adozione, per provare le gioie della famiglia senza intaccare il saldo carbonico globale. E quelli radicali, come i fondatori del Movimento per l’estinzione volontaria dell’Umanità (Vhemt), che esiste da anni ma solo negli ultimi tempi è diventato un piccolo caso sui media americani. «Musica, letteratura, nuove varietà di tulipano. Gli umani hanno creato molte cose divertenti in un milione di anni» riassume uno dei fondatori, sotto lo pseudonimo Les U. Knight «ma divertenti solo per gli umani. Al pianeta e al resto delle sue specie abbiamo portato solo guai. Staranno meglio senza di noi. Non parlo di sterminio o suicidi. Dico solo: non procreate, grazie». Ah, al Vhemt si può aderire anche se si è già genitori, a patto di promettere di non cascarci più. Il loro manifesto? Potrebbe essere la vignetta di Katz, apparsa sul New Yorker ad agosto. Il classico Dio barbuto, che sbirciando dalla nuvoletta dice: «L’esperimento con l’uomo è durato abbastanza: spazio all’ippopotamo».

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