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I padri del "si"
Pubblicato il: 13/04/2010  Nella Sezione: Paternità

Che oggi l’espressione “scontro generazionale” non abbia più molto senso è nozione acquisita e pacifica. Dagli anni Settanta in poi del secolo scorso lo scontro di generazioni (che si esprimeva sostanzialmente come scontro padrifigli) non c’è più, seppellito da una lunga serie di trasformazioni che hanno riguardato la paternità e delle quali il famoso “attacco al padre” della contestazione avviata con il ’68 fu solo la spallata finale. Non c’è più quel gradino che gli adolescenti di una (e ancor più di due) generazione fa dovevano faticosamente superare nello scontro con il padre, al quale di solito seguiva un naturale “incontro”. Un gradino sgradevole ma necessario, secondo molti, una sorta di rito di passaggio che segnava il superamento dell’adolescenza e l’ingresso nel mondo degli adulti. Quel rito non c’è più perché non ci sono più i presupposti: che erano il dissidio di idee, di atteggiamenti, di concezione di vita; erano da un lato il controllo e il limite, esercitato dal padre come una funzione a lui storicamente delegata, fisicamente e psicologicamente funzionale, e dall’altro il mordere il freno del ragazzo, il desiderio di mettere alla prova se stesso ma anche la “tenuta” dei genitori.

Sulla fine dello scontro generazionale come sinonimo di “passaggio” – a cui si accompagna la scomparsa, o almeno l’appannamento, della autorità paterna – ci sono ormai due scuole di pensiero: coloro che minimizzano (ma per carità: chi ha detto che fra la generazione dei padri e quella dei figli debba per forza esserci scontro? Meglio la pace attuale) e quelli che, con toni più o meno accorati, additano i molti guai che attribuiscono a padri assenti o troppo materni: bullismo, tossicodipendenze, comportamenti asociali in genere, immaturità, scarsa autonomia, incapacità di assumersi responsabilità…
Da qualche anno a questa parte si moltiplicano i libri di allarme, che auspicano un ritorno ai genitori del “no”. Fra i più recenti, Non ho paura a dirti di no. I genitori e la fermezza educativa (Edizioni San Paolo, 2009), già alla quarta edizione, e Adulti senza riserva. Quel che aiuta un adolescente (Cortina Editore, 2009) dello psichiatra e psicoanalista francese Philppe Jeammet.
“Quale specchio porgiamo ai giovani” – si chiede sconsolato Jeammet – “se abbiamo paura di porre loro dei limiti, e quale fiducia possono avere in noi, se ci mostriamo così poco convinti della nostra importanza”?
A proposito dei giovani di oggi, lo psicoterapeuta Fulvio Scaparro, sul Corriere della Sera del 16 luglio scorso, parla di una “generazione di
rinunciatari”, ma anche di una “tendenza alla resa di chi ha il compito di educare, una mancanza di coraggio”. “Molti adulti” – osserva – “temono i figli, cercano di evitare conflitti che invece sono del tutto naturali e ineliminabili”.

I padri hanno di solito abdicato al loro compito, si sono “maternizzati”, esprimono nel rapporto con i figli apprensioni materne, mostrano
atteggiamenti protettivi cercano pacificazioni su tutta la linea, rifuggono il confronto e più che mai lo scontro, ossessionati dal mito del padre-amico, del padre-compagno. Insomma, non sono più i padri del “no”, sono – anche in questo più vicini alle madri – i padri del “sì”. Come scrive Milan Kundera, si sono “papaizzati”: non esistono più padri, esistono solo papà, ossia “dei padri cui manca l’autorità di un padre”.
Chi legge le chiacchierate che da vent’anni vado facendo su queste pagine, sa bene che non rimpiango l’autoritarismo di una volta, il “si fa così perché è così”, o “perché lo dico io”; sa quanto apprezzi la tenerezza e la disponibilità e la vicinanza dei cosiddetti “nuovi padri”, e quanto mi sia battutto perché il padre di una volta lasciasse il posto a un padre più affettuoso, più presente e collaborativo. Ma sa anche che non ho mai condiviso la confusione dei ruoli, l’abbandono di ogni autorevolezza (non mi stancherò di ripetere che il padrecompagno non è un bene per i figli) e che considero il termine “mammo” un orrido neologismo umiliante per i tanti padri che da decenni stanno delineando
con fatica un nuovo ruolo con caratteri quali mai si erano visti nel corso dei secoli.

Nel passaggio dalla famiglia “etica” a quella “affettiva” di cui parla Monica Leva, i padri hanno perso la capacità di dire “no”, di porre limiti, di dare esempi validi di coerenza, di inculcare quei famosi “valori” (termine vago e insieme abusato, che ben si presta a strumentalizzazioni ideologiche) di cui i giovani mostrano un terribile bisogno.
Le madri, dal canto loro, non hanno mai avuto quello come obiettivo precipuo.
Non è un compito facile, intendiamoci: anzi, tutto congiura a renderlo difficilissimo: una società matricentrica, la tendenza a svalutare e delegittimare il padre in molte occasioni (si veda la vicenda del cognome paterno, di cui ci siamo più volte occupati, o lo stereotipo in sede di separazione e divorzio, che tuttora continua a penalizzare il padre) il prevalere dei gruppi di pari, l’influsso dei social network – da Facebook a Twitter – che collegano quotidianamente fra loro i giovani, facendone una sorta di maniacale consorteria, la impossibilità di competere con le conoscenze tecniche (almeno per i padri meno giovani) a tutto vantaggio dei figli, la pressione – fortissima – del comportamento
omologato e omologante (“lo fanno tutti”, “ce l’hanno tutti”), i sensi di colpa del genitore separato… Non c’è che da scegliere, tra i motivi che hanno relegato il padre sullo sfondo.
Jost Trier (Trier 1947) trova nell’etimo di “pater” un significato arcaico di “recinto”, “recinto circolare” e vi associa la radice dell’idea di protezione.
Eppure un recinto non ha solo il compito di proteggere chi è all’interno: ha anche quello di condizionarne i movimenti e di indicarne i limiti che non possono essere valicati. Una funzione che ormai sembra appartenere a un padre scomparso.

fonte: ispitalia.org
articolo di Maurizio Quilici